sabato 17 aprile 2010

Un testo che oscilla fra "la semplicità della fiaba e la complessità della costruzione simbolica", un testo che, anche per queste sue caratteristiche magnificamente ambigue, io affido ai miei attori di legno: gli irriverenti burattini. La storia in sé ci narra di un vecchio re, che affidandosi alle scienze e alla astrologia, scopre che il figlio suo sarà cagione di disastro per la sua casata (ci ricorda un altro grande personaggio del teatro, credulone e trombato dal destino: Edipo). Il vecchio decide quindi di chiudere il figlio piccino in una torre e farlo crescere in questo luogo tenendolo prigioniero a vita. Il figlio, Sigismondo, è allevato da Clotaldo, un fidatissimo uomo di Basilio, che si occupa della custodia e dell’educazione del povero figliolo. Ed ecco che il “generoso” re dispone, in uno slancio di pietas paterna, di concedere una possibilità al disgraziato Sigismondo (anche gli astri possono sbagliarsi? E la scienza?). Questi potrà essere re per un giorno… in sogno… se si comporterà bene potrà governare, altrimenti tornerà nella sua torre solitaria a finire i suoi giorni in catene. Sigismondo fa il finimondo e torna in galera… ma a questo punto sorte e volontà sovvertono i piani di Basilio… e al termine del dramma ritroviamo Sigismondo finalmente re, un sovrano giusto e misericordioso.

 

La sublime forza poetica del testo di Calderòn de la Barca ci porta in un viaggio vorticoso nell’esistenza fisica e metafisica dell’essere umano… Siamo nella realtà? In realtà, siamo? Stiamo vivendo realmente ciò che viviamo? Il nostro Sigismondo ha un’intuizione: anche se non fosse realtà ciò che stiamo vivendo, è meglio - anche in sogno - far del bene! Virtuosi ovunque, anche in sogno: una questione di stile. La scienza e la superstizione, quando divengono dogma, divengono armi ottuse in mano a stolti esecutori che pensano di poter prestabilire, prima di viverla, la propria esistenza e quella degli altri. Quanto, tutto questo sciocco affidarsi al fato, fantoccio razionale col soprannome di Scienza, ci imprigiona e contribuisce a farci vivere accecati da effimere certezze? Parliamone… anzi lasciamo parlare le nostre argute teste di legno.  Mi e vi chiedo, può oggi un attore dire?

 

Voi già sapete che al mondo per la mia scienza ho meritato il soprannome di dotto, e già sapete che le scienze che più coltivo son le alte matematiche, e rubo al tempo e alla fama il diritto di apportar nuove scoperte. Io scorgo le novità dei secoli che verranno. Il maggior studio dei miei anni sono i libri dove su pagine di diamante e quaderni di zaffiro scrive il cielo a righe d’oro in caratteri chiari le nostre vicende ora avverse ora benigne. Leggo così veloce che con la mia anima seguo i loro rapidi movimenti lungo le rotte e camminamenti.

 

Se è mentalmente lucido, e rispettoso di quel povero pubblico che sta servendo, io dico che un attore non può usare queste parole, parole bellissime, ma inadatte alla grigia pioggia del presente post-sur-posc-modernismo. Chi può dirlo ed essere creduto è solo lui: il burattino.

 

Nei secoli dei secoli.

 

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