sabato 17 aprile 2010

note di regia


Il dramma di Calderòn de la Barca completa la “Trilogia del Potere” sulla quale ho lavorato in questi ultimi anni. Il potere inteso come desiderio d’imporsi alla e nella realtà, snobbando tutto il risvolto metafisico che questa cela.

 

Il primo lavoro - “Un soldato”, ispirato al Macbeth di William Shakespeare - ritrae il protagonista totalmente asservito al suo destino, anzi da questo plagiato e spinto verso la rovina. Accecato dal desiderio di potere, l’uomo  è in balia di un disegno prestabilito. Nel Un soldato ho voluto illuminare il volto del servo arbitrio.

 

Nel secondo – “Erre tre”, tratto dal Riccardo III di Shakespeare - il potere scalpita sotto le forme del “vizio arbitrario”: l’importante è vincere, nell’eclissi dell’etica. ma anche questo metodo non paga e alla fine ti punisce, ci dice il testo, e il Riccardo finisce appiedato e sconfitto da virtuosi nemici.

 

In “Sinfonie per legno dalla vita è sogno” Sigismondo alla fine diviene re – e probabilmente vivrà felice e contento – perché ha scelto la via del libero arbitrio, if you want you can, forzando le sbarre di quello che era un destino già imposto dal padre perché scritto negli astri…

 

dei tre eroi drammatici, Sigismondo, è l’unico che accetta, piegandosi al vento come bambù, che il reale è quello che stiamo sognando... e allora anima mia sognamo!

 

 

Di Umberto Fabi

Con U.F. e Karin Monica

Suggerimenti burattineschi Cesare Bertozzi

Burattini ispirati e dedicati ai grandi occhi di Flavio M. Fabi

Un testo che oscilla fra "la semplicità della fiaba e la complessità della costruzione simbolica", un testo che, anche per queste sue caratteristiche magnificamente ambigue, io affido ai miei attori di legno: gli irriverenti burattini. La storia in sé ci narra di un vecchio re, che affidandosi alle scienze e alla astrologia, scopre che il figlio suo sarà cagione di disastro per la sua casata (ci ricorda un altro grande personaggio del teatro, credulone e trombato dal destino: Edipo). Il vecchio decide quindi di chiudere il figlio piccino in una torre e farlo crescere in questo luogo tenendolo prigioniero a vita. Il figlio, Sigismondo, è allevato da Clotaldo, un fidatissimo uomo di Basilio, che si occupa della custodia e dell’educazione del povero figliolo. Ed ecco che il “generoso” re dispone, in uno slancio di pietas paterna, di concedere una possibilità al disgraziato Sigismondo (anche gli astri possono sbagliarsi? E la scienza?). Questi potrà essere re per un giorno… in sogno… se si comporterà bene potrà governare, altrimenti tornerà nella sua torre solitaria a finire i suoi giorni in catene. Sigismondo fa il finimondo e torna in galera… ma a questo punto sorte e volontà sovvertono i piani di Basilio… e al termine del dramma ritroviamo Sigismondo finalmente re, un sovrano giusto e misericordioso.

 

La sublime forza poetica del testo di Calderòn de la Barca ci porta in un viaggio vorticoso nell’esistenza fisica e metafisica dell’essere umano… Siamo nella realtà? In realtà, siamo? Stiamo vivendo realmente ciò che viviamo? Il nostro Sigismondo ha un’intuizione: anche se non fosse realtà ciò che stiamo vivendo, è meglio - anche in sogno - far del bene! Virtuosi ovunque, anche in sogno: una questione di stile. La scienza e la superstizione, quando divengono dogma, divengono armi ottuse in mano a stolti esecutori che pensano di poter prestabilire, prima di viverla, la propria esistenza e quella degli altri. Quanto, tutto questo sciocco affidarsi al fato, fantoccio razionale col soprannome di Scienza, ci imprigiona e contribuisce a farci vivere accecati da effimere certezze? Parliamone… anzi lasciamo parlare le nostre argute teste di legno.  Mi e vi chiedo, può oggi un attore dire?

 

Voi già sapete che al mondo per la mia scienza ho meritato il soprannome di dotto, e già sapete che le scienze che più coltivo son le alte matematiche, e rubo al tempo e alla fama il diritto di apportar nuove scoperte. Io scorgo le novità dei secoli che verranno. Il maggior studio dei miei anni sono i libri dove su pagine di diamante e quaderni di zaffiro scrive il cielo a righe d’oro in caratteri chiari le nostre vicende ora avverse ora benigne. Leggo così veloce che con la mia anima seguo i loro rapidi movimenti lungo le rotte e camminamenti.

 

Se è mentalmente lucido, e rispettoso di quel povero pubblico che sta servendo, io dico che un attore non può usare queste parole, parole bellissime, ma inadatte alla grigia pioggia del presente post-sur-posc-modernismo. Chi può dirlo ed essere creduto è solo lui: il burattino.

 

Nei secoli dei secoli.

 

la scena




Due burattinai, un tappeto, una cassa per legna da ardere, un gruppo di teste ardenti – non da ardere-: le teste di legno. L’animazione dei burattini fatta “a vista” nello spazio scenico contenuto dal tappeto. Il richiamo alle forze inconsce e ancestrali che ci muovono nelle nostre azioni quotidiane è palese: il burattinaio diviene la radice profonda che ci muove, ci da le emozioni, la memoria, perchè conosce già il copione, l’ha riscritto. Il nostro copione, così simile per analogia al fato, alla nostra storia già scritta, è già impresso nelle varie memorie cellulari, cosmiche, pulsionali, e si snoda nell’arco breve e -per noi- sorprendente della vita. Ma il burattino, come l’essere umano, può sempre improvvisare –naturalmente su canovaccio- e dare una spinta decisiva al proprio destino immergendosi, forse, ancora di più nella parte assegnata. Quindi sulla scena le presenze “en plein air” del burattinaio, radice inconscia e demiurgo della realtà, e il burattino parte emersa del dramma che è sogno della vita apparente. Un gioco di rimandi percettivi allo spettatore, che vive in contemporanea la visione rappresentata di realtà-sogno, di conscio-inconscio; il burattinaio è pulsione all’agire del burattino. Ancora una volta scegliamo come valore stilistico e drammaturgico la via dell’essenza, ovvero scena spogliata d’orpelli ingombranti e attori-burattinai e burattini a occupare di semplicità lo spazio aperto e vuoto.